Processi ai medici e medicina difensiva

Parlare ai medici di processi che li riguardano, in questa sede, è come parlar di corda in casa dell’impiccato.
Chi scrive è, nondimeno, convinto che in Italia non vi sia “malasanità”, tanto quanto non vi è “malagiustizia”, ma “casi” di malasanità e di “malagiustizia”.

In realtà, vi sono fra le due importantissime attività alcuni denominatori comuni che meritano di essere citati.
Primo fra tutti, la “materia” molto simile, poiché la medicina si occupa della vita e della salute e la giustizia della libertà personale (penale e civile) e della libera esplicazione dei propri diritti non soltanto personali ma anche patrimoniali. E la libertà è un bene da cui dipendono vita e salute: se vero è che si può patire e persino morire, anche volontariamente, per la privazione della libertà.
Diversi fattori e differenti esigenze, tuttavia, portano a una constatazione di fatto, che non vuole essere minimamente polemica: ossia che tantissimi sono ormai i medici processati, mentre, quasi inesistente è il numero dei giudici processati per veri o supposti errori.

Chi scrive, partecipando a numerosi convegni medici sui problemi della “loro” responsabilità, ha facilmente colto questo disagio, sovente vissuto come profonda ingiustizia. Per la verità molto correttamente, perché ci si duole del male proprio, non della mancata, maligna equiparazione; come dire, della impunità degli altri. Si vuole, rettamente, giustizia non vendetta, né “male comune”.
È un fatto innegabile che le vittime dei medici abbiano una ben maggiore visibilità: ma questo certo non spiega il fenomeno, piuttosto inquietante.
L’intrigo è ancor più severo poiché chi processa e condanna i medici sono proprio i giudici. Tuttavia, se è fatale che sia, comprenderlo è più arduo.
È ancora necessario evidenziare che la vera parte drammatica e micidiale non è tanto la sentenza, quanto il processo. I cui danni sono evidenti e gravissimi per tutti e notevoli per i “professionisti della salute”, essi sovente non sono riparati da un esito finale, dopo i noti “tempi” della giustizia, ossia da una pronuncia finalmente liberatoria.
Una sorta di lunghissima, estenuante malattia da cui finalmente si guarisce, ma in punto di morte, quella naturale, quando ormai la vita è stata distrutta e nessuno la ripaga.
Attenzione, dunque, ci vorrebbe per tutti e anche per i medici, che si sentono particolarmente esposti; e, francamente, lo sono davvero.

Da non trascurare che, e questo è bene che i medici lo tengano a mente, in realtà chi li inchioda a vere o presunte responsabilità sono apparentemente e formalmente i giudici ma, nella sostanza, gli artefici sono gli strumenti inevitabili e scientifici di cui essi si devono fatalmente servire.
Sono, che piaccia o meno, i loro stessi colleghi, laddove nominati periti del giudice soprattutto, o consulenti del Pubblico Ministero o della Parte Civile.
Perché francamente della perizia non si può fare a meno, com’è ben difficile, se non propriamente impossibile, non derivarne in termini di decisione le relative conclusioni. Il giudice che è, come si dice, peritus peritorum, può discostarsene ma è evidente che dovrebbe farlo quando (con una scienza che non possiede per definizione) non si ritenesse pienamente convinto. E in questo caso, deve rendere adeguata motivazione.
Tutto sta a vedere con quale autonoma scelta scientifica può superare il dato processuale effettivamente professionale e scientifico: la perizia.

La risposta è evidente e la quotidiana pratica giudiziaria lo dimostra. Gli aspetti di questo tema delicatissimo sono molteplici ed è arduo cercare di comprimerli in poche pagine. Ma non è il solo.
Una distinzione fondamentale può essere fatta con riguardo al rapporto medico-giustizia e al diverso rapporto medico-amministrazione.
Quanto a quest’ultimo, oggi sempre più intricato e difficile, va detto che riguarda specialmente i medici di base e quanti operano con rapporto, più o meno organico e gerarchico, con le strutture sanitarie trasformate, forse non proprio provvidamente, in “aziende” della vita e della salute.
L’accomunarsi fatale del “ragioniere” al “medico” probabilmente, non poteva che condurre a tanto.
Poiché la storia insegna a vedere il futuro con la lente del passato, occorre forse un atto di contrizione, ma di tanti, se non di tutti. Va detto che in passato si è gestito ”allegramente”. Va detto. Ora, come per una stravagante legge di fisica, è la storia che si vendica, passando da un eccesso all’eccesso opposto. I conti in tasca sulla vita e sulla salute fino agli “spiccioli”.

Non dissimile il trattamento di un bene comune e prezioso, il territorio, per decenni devastato, e ora apparentemente sorvegliato a vista da una serie di norme severissime, che sarebbero anche serie se non fosse tanto difficile seguirle e tanto facile aggirarle.

Sul tema del difficile rapporto, visto come penalizzante dai medici, va ricordata la recentissima sentenza Grassini della Corte Suprema, Sezione Quarta Penale n. 1873/2010 che sarebbe necessario, ma lungo, commentare interamente, ma che ha affermato sullo specifico punto che ”…nel praticare la professione medica, dunque, il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato, utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità”. E ha aggiunto che “…il rispetto delle linee guida nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prescrizioni mediche più appropriate né all’autonomia e alla responsabilità del medico nella cura del paziente”.

Al momento, come sempre accade, è estremamente difficile dire e prevedere quale sarà l’impatto effettivo di tale ammirevole decisione sulla “realtà” della Sanità Italiana. Credo che il senso, e il buonsenso, facciano concludere per un riferimento preciso all’art. 51 del Codice Penale, derivandone l’illegittimità di ordini, circolari, note, raccomandazioni più o meno larvate o atteggiamenti equivalenti (promesse di premi economici in evidente elusione dei severi principi) che producano come conseguenza di imporre al medico di non comportarsi secondo quanto, e “soltanto”, gli impongono scienza e coscienza. Di tradire Ippocrate, in buona sostanza.

L’altro aspetto critico riguarda il rapporto con la giustizia, penale in particolare, e quello sempre più ingravescente con la giustizia civile, che procura danni meno drammatici, ma in ogni caso, in grado di sconvolgere la vita. Anche su questo difficile terreno può farsi riferimento a una reazione fisica che ha comportato un accrescimento consequenziale delle difese processuali e ante-processuali dei medici a fronte della sempre maggiore aggressività della macchina giudiziaria.

Non si intende minimamente indagare sulle “ragioni” più o meno profonde, evidenti, corrette e giuste di ciascuno dei contrapposti fenomeni. Non sarebbe nemmeno questa la sede opportuna e occorrerebbero una tale e difficile arte di sintesi e di premonizione da intimidire chiunque volesse anche soltanto approcciare le tematiche.
Tuttavia, anche in questo caso, soccorre la Corte Suprema con una pronuncia che affronta le questioni in anni ormai abbastanza lontani nel tempo, ma che, per chi scrive, è ancora attualissima per la logica, il buon senso, i grandi principi enunciati e per le conseguenze tratte con grande chiarezza.

La sentenza 26446 del 2002, detta “Volterrani”, pronunciata dalla Prima Sezione Penale, dopo avere criticato con inconsueta severità verbale, le precedenti decisioni, tanto quanto le doglianze della Pubblica Accusa (leggere la motivazione è gratificante) affermava che:
“La diffusa e crescente enfatizzazione in chiave giuridica di questa condizione (si parlava dei limiti del “consenso” e del “dissenso”) che fino a poco tempo fa trovava unica disciplina organica nel codice di deontologia medica, l’ha trasformata da strumento di alleanza terapeutica tra medico e paziente, teso al soddisfacimento dell’interesse comune di ottenere dalla cura il miglior risultato possibile, in fattore di elevata conflittualità giudiziaria, indotta dalla sempre maggior diffidenza dei cittadini verso le strutture sanitarie e verso coloro che vi lavorano, cui si contrappone l’inquietante fenomeno della “medicina difensiva”, di cui è, tra l’altro, espressione comune l’ansiosa ricerca in tutti i nosocomi, pubblici e privati, di adesioni modulistiche sottoscritte dai pazienti, nell’erronea convinzione di una loro totale attitudine esimente”.
Aggiungere un solo motto a tanto sarebbe pressoché sacrilego. Ma non sfugge una considerazione piuttosto sconfortante, ossia che se sono peggiorati i medici, è perché forse sono peggiorati i pazienti; o forse questi sono peggiorati perché sono peggiorati i primi. Siamo peggiorati tutti verrebbe da dire.
Il fatto è che le ormai incontenibili, difese si traducono proprio in quei costi (analisi e ricoveri inutili o quasi, ma difensivi, medicamenti inutili o quasi) che generano l’altro fenomeno e si torma alle premesse.

Tuttavia, non sono soltanto i costi a inquinare il rapporto privilegiato medico-paziente. Poiché la stessa enfatizzazione, per dirla come la Corte Suprema, delle modulistiche, ha portato e, maggiormente porterà in futuro, a elidere per eccesso proprio i fondamentali diritti di informazione e di conseguente consenso del coprotagonista, ossia del malato. Infatti, ormai si sviluppa sempre più la tendenza ad avvertire con accenni sempre più terrificanti dei possibili pericoli, sempre più oscuri e gravi, anche per l’impiego di presidi modestissimi, mentre si sviluppa con coerente e monitoria contestualità, tutta una copiosa documentazione scritta e da sottoscrivere.
Resta da vedere quanto sarà realmente valido un ammonimento talmente diffuso, talvolta a sproposito, nell’intimorire (recitus “informare”) chi essendo stato troppo, e troppo spesso, impaurito non si impaurisce più. E quanto sarà validamente e responsabilmente dato un consenso nel quale la complessa modulistica finisce per prevalere sulla reale e meditata manifestazione della volontà positiva, o addirittura del consapevole dissenso.

Chi resta, in definitiva, soccombente, è la domanda ormai sconfortante che ci si può e, forse, ci si deve porre. La risposta, evidente e drammatica, pare essere che il “perdente” sia proprio il povero Ippocrate.  E che, purtroppo, indietro non si torna.

Giuseppe Marciante
Già Magistrato di Corte d’Appello

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