L’esame del polso dall’oblio a un nuovo umanesimo

“Vi è più di una saggezza e sono tutte necessarie al mondo: non è male che esse si alternino”
Marguerite Yourcenair. Memorie di Adriano.

Questo mio primo editoriale del 2011 inizia con un ossimoro: il futuro della medicina sta nel suo passato. In seguito, preciserò meglio questa asserzione e, in particolare, cercherò di analizzare i rapporti, le analogie e le differenze tra la medicina del XX secolo e quella del XXI e rilevare come dovrà operare il medico del prossimo domani.

L’occasione per una tale meditazione è nata da un recente avvenimento che mi ha riguardato. Il 15 novembre 2010 presso la sala gialla di Lingotto Fiere il Presidente dell’Ordine dei Medici della Provincia di Torino dott. Amedeo Bianco mi ha consegnato una medaglia d’oro per il compimento dei miei cinquant’anni di laurea. Mezzo secolo è trascorso da quando il Professor Vittorio Puntoni, igienista di fama mondiale e Preside della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma (in quel tempo Studium Urbis e unica Università della Capitale) recitò il rituale “in nome del popolo italiano e per i poteri conferitimi dalla legge la nomino Dottore in Medicina e Chirurgia”.
Nell’occasione della premiazione, erano presenti i neolaureati che avrebbero giurato sul testamento moderno di Ippocrate. Guardando quei visi attenti ed entusiasti mi son chiesto cosa faranno, domani, questi medici? Come svolgeranno la loro professione in un’epoca caratterizzata da uno spettacolare sviluppo dei sistemi computerizzati e dei data base elettronici? Saranno ancora
capaci di provare empatia per il malato, mettendo in atto tutte le fasi della semeiotica classica o si faranno trascinare dallo tsunami dell’information overload?
Enzo Grossi nel suo editoriale su Geragogia.net scrive: “con l’avvento dell’imaging digitale e dei microarrays, in grado di fornire migliaia o decine di migliaia di informazioni per soggetto, ci troviamo ora in una situazione in cui anziché raccogliere variabili intorno a un gruppo di soggetti, ora si tende a raccogliere soggetti intorno a gruppi enormi di variabili”(1).

Cinquanta anni fa, per i giovani medici, la semeiotica era il solo e unico campo di esercitazione e il primo approccio al paziente. Raccogliere minuziosamente l’anamnesi, senza fretta, per noi allievi interni significava parlare col paziente, interrogarlo e correlarsi con lui per tutto il periodo della sua degenza. Si creava, in tal modo, un rapporto fatto di conoscenza e perfino di amicizia e, osservando il comportamento degli assistenti anziani, ci immedesimavamo nei problemi del paziente, attuando, senza saperlo e volerlo, una pratica di significativa empatia.
L’esame obiettivo era condotto con attenta, minuziosa osservazione dei segni rilevati, che cercavamo di associare ai sintomi riferiti durante l’anamnesi. Un’ottusità polmonare doveva essere correlata a incremento o assenza del FVT (polmonite, tumore, versamento pleurico?). Ed ecco allora comparire la linea di Damoiseau-Ellis, il triangolo di Garland e di Grocco, il suono di Skoda, i crepitii indux e redux). L’esame del cuore con i soffi sistolici e diastolici, la variabilità del polso (lento, a fil di ferro, scoccante di Corrigan), il fremito gattesco, erano l’incubo per noi giovani apprendisti. Segni, questi, tutti da rilevare, apprezzare e correlare (quanti rimbrotti e ironie da parte degli assistenti di ruolo, ogni volta che uno di noi, poveri allievi interni, sbagliavamo).

La semeiotica, scienza dei segni secondo la tradizione che va da John Locke (1632-1704) a Charles Sanders Peirce (1839-1914) a Charles Morris (1901-1979), ci veniva insegnata sul pregevole test del rosario in relazione ai principi ippocratici: riguardava la diagnostica (praeteritorum cognitio), il passato mediante l’anamnesi (praesentium insperctio) e la prognosi (futurorum providentia).

Oggi la tecnologia sempre più sofisticata consente diagnosi di una precisione e attendibilità, impensabili tempo addietro e nei suoi confronti si crea da parte dei giovani medici una situazione fideistica di delega, autoreferenziando seguaci di un prometeismo, che in definitiva risulta ingenuo e poco efficace.
L’anamnesi diventa sempre più scarna, si ascolta poco, si palpa meno, si visita frettolosamente. Talora l’esame si fa solo sui documenti e non sul paziente. La conclusione è che una TAC, una RM, un’ecografia, una scintigrafia, una PET possono essere esami impropri, eseguiti su “falsi positivi” ritenuti tali solo dalla presunzione e dalla mancanza di un corretto esame obiettivo. Si fanno in tal caso spese inutili in un momento storico di scarse risorse economiche.
È pur vero che utilizzando le nuove tecnologie si ha una grande messe di informazioni, ma è pur vero quanto afferma Enzo Grossi: “… non è solo la quantità di informazioni a metterci in crisi; in realtà è soprattutto la qualità di queste informazioni … non si tratta solo di knowledge management ma anche e soprattutto di un problema che definirei di truth management. Dobbiamo in altri termini non solo essere in grado di gestire al meglio le informazioni che rileviamo ma anche di capire perché le rileviamo e a quali domande possano aiutarci a rispondere”.

Lo sviluppo tecnologico biomedico ha messo in seria discussione il rapporto medico-paziente. Giorgio Israel (2) afferma che la concezione della medicina come scienza oggettiva è molto riduttiva, poiché non tiene in sufficiente conto la peculiarità dell’arte medica, cioè la pratica clinica, spazio di contatto ravvicinato tra curante e curato, che sottrae necessariamente la medicina a una visione meccanicistica e utilitaristica che per tradizione non le appartiene. Sostituire il concetto di “cura” con quello di “riparazione” è un errore culturale e un grave rischio sul piano clinico che espone i due attori della relazione terapeutica a un conflitto inconciliabile che vede la patologia solo come un errore di programmazione dell’organismo.

Il medico del futuro dovrà riappropriarsi della tradizione. Senza radici non c’è storia e non c’è umanità, ma solo commercio e fredda economia. La medicina non deve innamorarsi di se stessa attraverso un orgoglio presuntuoso auroreferenziante: il rischio è pensare che tutto è possibile, tutto è lecito e che tutto possa essere praticato. Se questo è il modo di procedere, il pericolo è quello di creare mostri alla Frankenstein senza umanità. Una medicina che esaspera il giusto e corretto dogma della evidence based medicine rischia il fallimento, nel momento in cui dimentica che il malato è il solo e unico obiettivo primario dell’assistenza del medico.
Nessuno nega la validità di una ricerca sempre più avanzata nel campo delle tecnologie o dello studio genomico e molecolare che, da un lato consentono un approccio più mirato alla patologia, dall’altro permettono un trattamento terapeutico sempre più personalizzato e individualizzato.

ll grande filosofo e epistemologo francese Georges Canguilhem (1904-1995) nella sua opera Le Normal et le pathologique, scrive che la medicina esiste perché gli uomini si sentono malati e non soltanto perché i medici li dichiarano tali. E allora non basta curare il soma. Ci sono la psiche, l’angoscia, l’ansia, la paura, la disperazione, il dolore morale, l’aggressività, l’odio, il rancore che spesso rappresentano la vera e più pregante forma della malattia e che devono essere prese sempre più in considerazione. Ricordiamo l’assioma we treat the man not the pathology.
Il giovane medico del domani nell’utilizzare tutto ciò che la ricerca metterà a sua disposizione, se vorrà curare olisticamente il proprio paziente, dovrà ricuperare la vecchia semeiotica e utilizzare, come nel passato, la cosiddetta medicina del racconto o narrative medicine, che consente un tempo maggiore da dedicare alla visita, un recupero della capacità di ascolto, un più attento esame diretto del paziente e, in definitiva, una capacità del sanitario di capire il malato e le sue ambasce, umanizzando il proprio operato e la propria relazione.

 

Carmine Macchione
Direttore Scientifico ACSA Magazine,
già professore di Geriatria e Gerontologia dell’Università di Torino


Link

 

 

1. Enzo Grossi. Il geriatra del XXI secolo tra riduzionismo statistico, intelligenza artificiale e nuovo umanesimo. Geragogia.net
http://www.geragogia.net/editoriali/ventunesimo.html

2. Giorgio Israel. Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone. Edizioni Lindau.Torino
http://www.lindau.it/schedaLibro.asp?idLibro=1206

 

 

 


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