La legge 15 marzo 2010 n.38 e il dolore nell’anziano

“Quando il soggetto non è più in grado di comunicare, il dolore da sintomo (ri)diventa segno”

M. Trabucchi 2004

Nel trattare il dolore nella vecchiaia è importante premetterne una definizione, non fosse altro per rendersi conto di come poterlo poi affrontare in un soggetto anziano, che spesso non è più in grado di riferirlo. Di definizioni ne esistono molte. Ne abbiamo privilegiato due in quanto ci sembrano le più vicine all’argomento che vogliamo trattare.Il dolore in termini fisiopatologici secondo Merskey H., (Classification of chronic pain and definition of pain terms. Pain, 3: S1 – S 222, 1986) corrisponde ad una sensazione spiacevole e ad una esperienza emozionale ed affettiva associata a danno dei tessuti o descritto nei termini di tale danno. M. Tiengo nel 1976 definisce il dolore come un fenomeno complesso, un’evenienza eccezionale della nostra vita, che ci obbliga per esprimerlo a mobilitare risorse psichiche, neuronali, valenze culturali e relazionali.

Molte discussioni sono state fatte sulla tipologia, qualità e intensità del dolore in soggetti anziani, affetti o no da demenza. In particolare ci si è soffermati sulla capacità dell’anziano a saperlo “esprimere” correttamente quando è ancora mentalmente indenne, e sulla comprensione di recepire anche quanto e come e in che modo il soggetto con deficit cognitivi possa riferire e verbalizzare l’insulto nocicettivo.

La prima domanda che allora è doveroso porsi è se esista o no una presbialgia? La domanda non è peregrina o soltanto retorica, in quanto, in Italia, e non solo, esiste tuttora una scarsa cultura del dolore e gli stessi sanitari ancora sono riluttanti nel procedere alla sua etiologia e ad una effettiva misurazione. Da tutto questo discende che ancora oggi esiste una disparità di convincimenti, molti dei quali derivano anche da numerosi pregiudizi sull’invecchiamento, per cui sono molti i ricercatori che ritengano che il dolore del vecchio sia del tutto simile a quello che si manifesta nelle classi di età più giovani, mentre altri ne sottolineano marcate differenze. Senza soffermarsi sui quattro componenti del dolore (nocicezione, sensazione, sofferenza e comportamento) vogliamo in questa sede sottolineare quanto la letteratura ha prodotto nello studio della nocicezione senile e in particolare si vuole stigmatizzare. come il problema relativo al dolore in tarda età sia stato solo parzialmen­te risolto e gli stessi ricercatori del settore spesso non hanno messo nella giusta evidenza la diversità, qualora esista, tra il dolore del vecchio e quello che si manifesta nelle classi di età più giovani, anche sulla scorta della scarsa propensione alla valutazione del do­lore nell’anziano affetto sia da demenza che da altre malattie croniche invalidanti o da problematiche sociali che ne limitano fortemente la funzione cognitiva e comunicativa. Considerata l’elevata incidenza del dolore cronico nel vecchio il Veterans Affairs Departement consiglia di considerare il dolore conico nell’anziano come un quinto segno vitale.

Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato che dal 25 al 60% delle persone anziane non istituzionalizzate accusa dolore e tale percentuale diventa molto più elevata fino all’85% quando si esamina la popolazione nelle RSA. La difficoltà di valutare correttamente il dolore nella popolazione anziana discende dal fatto che il dolore è spesso non solo sottostimato ma anche poco studiato. Il fattore demografico ci dice che in Italia il 22% della popolazione è al di sopra dei 65 anni d’età con tendenza ad aumentare ulteriormente. Si stima che nel 2050, cioè fra soli 35 anni, gli ultrasessantacinquenni saranno circa il 36%. Il dolore cronico aumenta con il trascorrere degli anni, in relazione alle malattie croniche più frequenti in tarda età. Infatti le cause più frequenti di dolore negli anziani sono le artropatie (coxalgia, gonalgia, cervico-lombo-sciatalgie), le arteriopatie croniche obliteranti ischemiche (claudicatio intermittens), le neuropatie (diabetiche, erpetiche) e le malattie oncologiche. Da tutto ciò si deduce che il gli anziani sono i maggiori consumatori di farmaci antidolorifici con una significativa ricaduta sulla spesa del SSN.

Numerosi sono i luoghi comuni relativi al dolore nell’anziano. Molti operatori ritengono che l’anziano abbia una soglia del dolore più elevata di quella del giovane-adulto, che sia capace di sopportarlo meglio, anche per il ricordo di precedenti episodi dolorosi sofferti nell’arco della sua esistenza (pain memory experience), che risponda meglio agli oppioidi, che per un overtreatment secondario alla comorbidità e per una diversificata farmocodinamica e farmacocinetica sia molto difficile comprenderne etiologia e trattamento efficace.

Nel medesimo tempo lo stesso anziano sopporta il dolore “in silenzio” per fatalismo (“cosa vuole è l’età) ed è portato ad una rassegnazione, a consultare poco il medico di famiglia, specie quando il suo livello culturale e sociale è basso, preferendo l’autoprescrizione e il consiglio dei coetanei.

Per capire se con l’invecchiamento si determinano delle alterazioni della percezione e dell’elaborazione del dolore, bisogna valutare alcuni fattori, quali gli effetti dell’invecchiamento sul dolore acuto e su quello cronico e non ultima l’influenza del deficit cognitivo sulla percezione del dolore stesso. Per quanto riguarda il dolore acuto gli studi più attendibili hanno evidenziato risultati contrastanti per la soglia del dolore, cioè per il minimo stimolo per cui il soggetto dichiara verbalmente di provare dolore e per la soglia comportamentale al dolore (minimo stimolo capace di far contrarre il muscolo orbicolare). Sembra invece che ci sia unanime accordo sulla diminuzione della soglia di tolleranza al dolore cioè il minimo stimolo che provoca un dolore di intensità tale da non essere più sopportato. Nel soggetto anziano il dolore acuto proveniente da strutture profonde è meno percepito, mentre risulta aumentata la frequenza del dolore cronico proveniente dalle stesse strutture. Ad esempio un’appendicopatia acuta o un IMA spesso nel soggetto anziano non si associano sempre ad una sintomatologia dolorosa e non vengono tempestivamente diagnosticati.

Un campo poco studiato in psicogeriatria riguarda due grandi aree e cioè l’influenza del dolore nella etiopatogenesi della depressione e la diagnosi del dolore in soggetti affetti da demenza. Un dolore cronico di solito modifica nel soggetto anziano l’umore, lo stato funzionale e la qualità stessa della vita. Parmelee ed altri (The relation of pain to depression among instituzionalized aged. J. Geontol, 1991. 46:15-21) ritengono che il soggetto depresso avverta maggiormente il dolore e che questo, negli anziani, può essere considerato l’espressione di una depressione silente (alessitemia). A causa della pluripatologia cronica invalidante associata a sintomatologia dolorosa il 18% delle persone anziane assumono regolarmente farmaci per il dolore (ogni giorno o più di 3 volte la settimana), il 71 % assumono analgesici, il 63% continua ad assumerli per più di sei mesi. Nel 26% si riscontrano reazioni avverse, talora di alta intensità, tale da determinare nel 10% un ricovero ospedaliero. Non è da ritenere che i dementi siano meno a rischio di avere condizioni dolorose rispetto a soggetti di pari età non dementi. E’ più verosimile pensare che i dementi non siano in grado di esprimere le proprie sensazioni dolorose, per cui è necessario sostituire la registrazione verbale con valutazioni altrettanto significative (espressione del viso, respirazione difficoltosa, ipertono muscolare, sudorazione, irrequietezza, ecc.).

Nel valutare il dolore in soggetti con difficoltà cognitive è opportuno tenere presente alcuni aspetti critici, quale l’alterata capacità di esprimere il dolore da parte dell’assistito per alterazione delle fun­zioni cognitive-comunicative; la disomogenea sensibilità e competenza del personale sanitario nel valutare e trattare il dolore; la crescente complessità dei bisogni degli as­sistiti; non ultimo, la limitatezza delle risorse economiche messe a disposizione.

Quando ci si trovi difronte ad un soggetto che accusa dolore è necessario cercare di analizzarlo e quantizzarlo. Numerose sono le scale proposte per la valutazione del dolore. Vengono riportati i metodi i più impiegati per soggetti ancora cognitivamente indenni: metodi descrittivi: notizie fornite dal paziente; scala analogica visiva (VAS) da 1 a 10; scala numerica verbale (VNS) da 0 a 10; scala di valutazione verbale (VRS). E’ importante valutare il diario del dolore redatto sia dal paziente stesso che dai parenti, dal caregiver o dal personale di assistenza, le mappe del dolore e la misurazione degli indicatori fisiologici. Per valutare il dolore nel demente una delle scale più accreditate è la NOPPAIN (Non Comunicative Patient’s Pain Assessment Instrument).

La difficoltà a valutare e misurare l’intensità del dolore trova un ostacolo nell’anziano stesso che da una parte tende a sottovalutare e a sopportare meglio il dolore e dall’altra accusa la paura di doversi sottoporre a indagini, di dover prendere medicine, di conoscere la causa del dolore (ho un cancro!) che comporterebbe un temuto intervento chirurgico, e infine dalla convinzione che nulla possa essere fatto per sedarlo.

Per ovviare a tali inconvenienti è’ necessaria una VMD a largo raggio (clinica, psicologica, sociale) che da una parte rassicuri l’anziano e dall’altra dia al sanitario le informazioni più certe per una eventuale cura.

Per anni, in Italia, le disposizioni normative sul dolore erano frammentarie o addirittura inesistenti. Finalmente il 15 marzo del 2015 fu promulgata la legge n. 38 su “Disposizioni per garantire l’accesso alle palliative e alla terapia del dolore”, che all’articolo 2 , comma b definisce la “terapia del dolore come l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare allo forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore”.

La sintomatologia dolorosa associata alle ma­lattie croniche, causa frequentemente disagio, impotenza, frustrazione, inutile sofferenza e contribuisce a generare nell’anziano molteplici disturbi del comportamento, quali l’agitazione, l’aggressività, l’insonnia, i deliri e l’apatia.

In conclusione si può dire che il dolore acuto non sembra essere influenzato dall’età.

Le sensazioni nocicettive acute provenienti da strutture profonde sono ridotte, ma, nel contempo, aumenta la frequenza del dolore cronico proveniente dalle stesse strutture (es,IMA,Angor). Mancano studi longitudinali sul dolore sia nel young-old che nell’old-old.

L’intensità e la frequenza del dolore cronico, sia in termini di incidenza che di prevalenza, sembra aumentare con l’età.

Le differenze età-dipendendenti nella percezione del dolore non sembrano secondarie a danno recettoriale (presbiocacusia) o di una alterata accomodazione dello stimolo (presbiopia), ma sono conseguenza di un processo più complesso che coinvolge le vie nervose di trasmissione, le valutazioni e rappresentazioni cognitive, lo stato sociale e la storia stessa del dolore. Non è da ritenere che i dementi siano meno a rischio di avere condizioni dolorose rispetto a soggetti di pari età non dementi. Nei loro confronti non bisogna attuare una assistenza precaria d’abbandono (tanto non capisce). Il demente soffre come qualsiasi altro soggetto. Spetta a noi sanitari osservarlo attentamente e capirne la presenza dall’espressione del viso, da una respirazione difficoltosa, da un ipertono muscolare, dalla presenza di sudorazione o di irrequietezza. Ciò che conta è non lasciarlo mai solo.

Carmine Macchione

Direttore Scientifico ACSA Magazine,
già professore di Geriatria e Gerontologia dell’Università di Torino

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