Il dolore cronico nella storia

“Divinum opus sedare dolorem”, Ippocrate


Del dolore si hanno numerose definizioni, filosofiche, fisiologiche, internistiche, neurologiche, psicoanalitiche, ognuna delle quali predilige gli aspetti culturali dei proponenti, ma che, a ben guardare, hanno tutti un tragitto comune che conduce ad un crocicchio da cui si dipartono la sofferenza, il disagio, la frustrazione, il peggioramento della qualità di vita, l’impoverimento dei rapporti sociali e i disturbi comportamentali con una manifesta disabilità di chi ne è afflitto. La IASP (International Association for the Study of Pain) ha definito il dolore come un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata ad attuale o potenziale danno tessutale. Da tale definizione si trae la cognizione che il dolore non è soltanto un fatto fisiologico, ma ha anche un elevato valore sociale e esistenziale. Il dolore ha accompagnato l’uomo fin dalla sua comparsa sulla terra e non per è un vezzo culturale narcisistico che vogliamo riportare come nei secoli è stato considerata questa sensazione psicosensoriale, in quanto pensiamo che l’evoluzione del pensiero umano sia sempre importante da essere studiato e valutato e porta con sé comunque sempre degli insegnamenti utili.


Sul piano antropologico il dolore è tra le realtà più misteriose e inquietanti dell’uomo e per questo ha avuto non solo nell’antichità ma anche fino al XX secolo quasi spesso una sublimazione artistica (Michelangelo, Mantegna, Goia, Van Gogh) con un’interpretazione filosofica e una giustificazione teologica. “Si nasce tra le lacrime e si muore tra le lacrime” diceva un vecchio aforisma. Possiamo rilevare come nell’antichità il dolore rientrava nell’ambito sciamanico e religioso. Era infatti definito come il cane che abbaia per far la guardia alla salute o come espressione e volere della divinità. Nella cultura buddistica, fatta di osservazione e meditazione, il dolore era tutt’uno con la vita. Gli antichi Greci affermavano che anche gli Dei soffrivano e sottolineavano come il dolore coinvolgeva il corpo e l’anima e, compreso nello schema ippocratico dei quattro elementi, era una disarmonia nei cui confronti i trattamenti lenitivi erano solo palliativi.

Nella Bibbia è scritto “donna partorirai con dolore”, forse per punirla per aver mangiato la mela o come conseguenza della fine dell’edonia goduta nell’Eden. L’uomo ha sempre cercato rimedi, empirici fin che si voglia capaci di alleviare i sintomi algici.
Nella Genesi e nel Cantico dei Cantici della Bibbia e nel papiro di Ebers (circa 1550 a.C.) vengono riportati gli effetti sedativi della mandragora, Altri popoli ne conoscevano gli effetti allucinogeni (India), antidepressivi (ippocratici) ed anestetici (Cina, Celti). I Druidi parlavano della pianta come di “elisir dell’oblio” ed a questo fine la raccomanda Alberto Magno, vescovo domenicano di Colonia (1206). Oggi sappiamo che il principio attivo della mandragola è una miscela di alcaloidi anti-colinergici, comuni nelle Solanacee (iosciamina, scopolamina, atropina ed altri), che danno credito all’azione afrodisiaca della puzzolente radice antropomorfa.

Era noto che l’assunzione di foglie di salice riduceva il rischio di alcune malattie (Erodoto), e che infusi della sua corteccia avevano effetti febbrifughi e antalgici (Sumeri, Egizi ed Assiri). Le popolazioni euro-afro-asiatiche conoscevano da sempre le proprietà sedative del succo di Papaver somniferum. In una tavoletta d’argilla proveniente dalla città babilonese di Nippur, fatta risalire al 2250, si legge, che nell’eseguire un’otturazione dentaria sono stati usati i semi di embano o giusquiamo, pianta delle Solanacee contenente degli alcaloidi lenitivi il dolore.
In India, prima ancora di essere impiegata nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, la rauwolfia era utilizzata per curare alcune manifestazioni psichiatriche. Gli sciamani, grandi conoscitori delle proprietà delle erbe e delle piante e dei loro effetti sull’organismo umano, sfruttavano le proprietà allucinatorie e psichedeliche di alcune sostanze vegetali o naturali a scopo voluttuario, piuttosto che per le loro virtù curative. Nell’antica India i Veda negavano l’origine soprannaturale dell’arte di guarire, perché nell’Atherveda è scritto “… queste erbe…vengono da lontano…tre ere prima che nascessero gli dei…”.
Nell’Asia Minore per ridurre il dolore e conciliare il sonno si inalavano i fumi prodotti nel bruciare canapa indiana (Cannabis sativa) e si utilizzavano le sue infiorescenze delle piante femminili (marjhuana), e i suoi effetti resinosi (hascish).

La ricerca epistemiologica sul dolore nelle civiltà antiche evidenzia come la sofferenza, aborrita (Pitagora lo considerava un prodotto di una vita dissoluta) o sublimata, era universalmente considerata come una compagna inseparabile dal cammino terreno degli esseri viventi, anche se poi ciascun popolo ne ha fatto un utilizzo differente, sino ad ammetterla solo per l’umanità. Più tardi nel XIX secolo, tale concetto fu ripreso da Hegel, che, contrariamente a quanto dimostrato dalla ricerca etologica, già fiorente nel XIX secolo, affermò che il dolore è un privilegio solo degli esseri più elevati.

Automedone dichiarava che il dolere poteva essere vinto con la felicità che si otteneva per mezzo di tre fattori: l’innocenza, il celibato e la mancanza di figli. Epicuro valutava il rapporto tra quantità e qualità si longus levis, si gravis bevis La cultura romana dava al dolore quasi un significato di piacevolezza (voluptas dolendi), concetto ripreso più tardi da Petrarca, Leopardi, dal Romanticismo, da Verlain e da Trilussa (fa tanto bene a ripensà all’amore/ne li momenti de malincunia/senti na smania di nun so che sia/ come un piacere de provà dolore).
Seneca affermava che nessuno può sopportare dolori forti di lunga durata, evidenziando l’osservazione fatta dai medici del tempo, secondo i quali c’era un significativo rapporto tra la durata del dolore e la sua violenza: quando il dolore è breve è forte e pesante, mentre quando è lungo è invece più debole.
Claudio Galeno, nato a Pergamo nel 129/130 d.C., dei cui insegnamenti ippocratico restano 108 frammenti, tra greco, traduzione araba e rifacimento latino (“Methodus Medendi”) utilizzava come antidolorifico l’oppio e come antireumatico la corteccia del salice

Uscendo dall’ambito euro-asiatico è noto che le civiltà pre-colombiane utilizzavano a scopo antalgico la coca. La conoscenza che la scorza di salice fosse un antidolorifico era ben noto ai Pellirossa e, in Africa. Dagli scritti del prelato Tòmas Ortiz (1499) e di quelli del segretario di Pizzarro, Arahuaco e Aymara fSempre sappiamo che in America meridionale le popolazioni andine per aumentare la resistenza fisica masticavano foglie di coca (Erythroxylon coca), e che, facevano uso voluttuario di coca.

Il Medio Evo occidentale fu dominato dalla cultura cristiana che considerò il dolore come la Passio Christi, privilegiando la conservazione della salute dell’anima come unico obbiettivo del vivere. La carne era debole, asservita ai sensi tentatori e destinata a perire nella “valle di lacrime” terrena, in attesa della sua resurrezione, doveva essere flagellata e mortificata. Origene scrisse che l’empatia al dolore altrui può diventare pietà fisica e tristezza comune (infirmare cum infirmitate, fiere cum fluente).

Sant’Agostino neo platonico e, sotto alcuni aspetti, plotiniano riteneva che “si può accettare il dolore, ma non ne esiste uno che potremmo amare” E più tardi Tommaso d’Aquino scrisse che l’unica e decisiva reazione al dolore è la contemplazione del Divino. Le streghe, come gli sciamani, conoscitrici delle erbe curative, erano condannate al rogo come figlie di Satana, mentre la Scuola Salernitana (IX secolo), restava l’unico baluardo nel diffondere una cultura che collegava precetti pratici, tratti dalla tradizione, e come tali comprensibili al volgo, alla Medicina ecclesiale priva di senso clinico, che rifiutava a priori come bestemmie “infedeli” le informazioni, i precetti e le nozioni, che i mercanti riportavano dai loro viaggi dal lontano oriente o diffusi e appresi per contiguità dai rapporti con la vicina cultura araba e ebraica. Avicenna distingueva quindici tipi differenti di dolore, in rapporto all’esordio, all’intensità e alla durata e usava l’oppio come antidolorifico e antidiarroico. Il filosofo spagnolo Averroé, morto nel 1128, scrisse i principi metodologici della clinica (“Kulliyyat al tibb”). Nel segreto e nell’isolamento dei monasteri i monaci, però, continuavano a studiare la conoscenza delle piante medicinali (giardino dei semplici) e i loro pregevoli “Thesaurus Sanitatis”, furono abilmente conservati nei chiostri o concessi a nobili committenti per poter sfuggire all’integralismo becero dell’Inquisizione.

Il Medio Evo, pur restando ancora fermo ai principi galenici, ebbe un forte impulso nella ricerca di farmaci veri o improbabili (produzione della pietra filosofale o ricerca eterna dell’elisir di lunga vita). Poco a poco dalla cialtroneria e dalla magia gli studiosi si avventurano in ricerche sempre più aderenti alla realtà anche per la possibilità di poter studiare il corpo umano senza dover avere una dispensa papale. Nel XVI secolo, Teofrasto Bombasto di Hohenhein, grande alchimista e guaritore, noto con lo pseudonimo di Paracelso, scopre l’etere, anche se inizialmente non ne comprese il potere anestetico. Per lenire i dolori addominali usò una tintura di oppio, che nel 1670 diviene il laudano di Sydenham,. I chirurghi, specie quelli militari, prima di impiegare i derivati dell’oppio operavano stringendo con una cinghia la radice di un arto e facevano assumere al paziente generose dosi di whisky di cognac o di altro alcolico forte e applicavano uno straccio od un bastone da stringere tra i denti.
Cabanis nella Storia fisiologica delle sensazioni distingue fra sensibilità e irritabilità e afferma che le sensazioni si trasmettono attraverso i nervi.

Con la scoperta del microscopio e della microbiologia i ricercatori avrebbero potuto zittire i fedeli sostenitori della canonica generazione spontanea delle malattie infettive e, relativamente al problema del dolore la cultura medica restò ancora dipendente dalla tradizione aristotelica e galenica. Col dualismo cartesiano si giunse alla divisione “corpo-anima” e la valutazione del dolore come un fattore difensivo e meccanismo di allarme.Con Cartesio si ha infatti finalmente una visione nuova del come si produca il dolore: Per il filosofo il bruciore di una fiamma sotto un piede si propaga al cervello grazie a delle “cordicelle”, le quali vi fanno tintinnare una campana, che attiva il dolore.
Joseph Priestley nel 1772 a Leeds preparò il protossido di azoto, inizialmente utilizzato a Londra come “gas esilarante”. Nel 1846 William Morton eseguì la prima anestesia eterea per la chirurgia generale presso che come anestetico chirurgico non ha fortuna nemmeno oltre oceano. Bisogna attendere che il Massachusetts General Hospital di Boston.

Tra il 1803 ed il 1806, il farmacista tedesco Sertuener estrae la morfina dall’oppio e finalmente la chirurgia e la lotta per lenire o eliminare il dolore entrano in una nuova epoca Nell’800 vengono inventati l’ago da iniezione e la siringa (Rynd e Wood in America e Pravaz in Francia). Felix Hoffmann preparò un acido acetilsalicilico (1893), meno gastro e rene lesivo dei precedenti preparati e che la Bayer brevettò col nome di Aspirina. Con Ramon y Caial, Golgi. Sherrington, Eccles, Hodking e Huxley gli studi sulla nocettività arrivano a dare risposte esaustive sulle fibre nervose e sulla trasmissione degli stimoli algici e vengono effettuati con sempre maggiore rigore scientifico.

Malgrado tali ricerche abbiano dimostrato, sempre più con una maggiore attendibilità scientifica la fisiologia e la etiologia del dolore, rimane nel popolo, ancora immutato nel tempo, il retaggio antico della paura e della incapacità alla sopportazione, da cui discende l’illusione di non voler soffrire se attuate alcune procedure legate a una credulità sacrale, dove talismani, amuleti, scongiuri, reliquie, ex voto, processioni, benedizioni, preghiere ed oboli sopravvivono e si frammischiano all’aumento esponenziale di cure razionali e irrazionali ed al ritorno di pratiche empiriche vecchie di millenni. Procedure quest’ultime che assumono un grande rilevo nella popolazione anziana, portata spesso all’autoprescrizione o ai suggerimenti di amici e conoscenti che magnificano le proprietà miracolose di alcuni prodotti contro il dolore. Il dolore, malgrado l’istituzione di cattedre universitarie di algoterapia, rimane ancora per la maggior parte della popolazione un mostro pauroso, sconosciuto e la terapia con morfina e derivati incute paura, timore di dipendenza e da utilizzare solo nei casi terminali.

Carmine Macchione
Direttore Scientifico ACSA Magazine,
già professore di Geriatria e Gerontologia dell’Università di Torino

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