Il vecchio cattivo

Il vecchio cattivo

“C’è tanta gente malvagia nel mondo, la scienza ha fatto passi da gigante, ma ciò che spinge l’uomo a far del male rimane incomprensibile, forse perché la profondità della cattiveria per noi è insondabile
NCIS – Unità anticrimine

“Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti”
Martin Luther King

Dovendo parlare della cattiveria dell’anziano, argomento del tutto negletto dalla ricerca gerontologica, salvo pochi encomiabili e importanti contributi, desidero iniziare con un ossimoro, dicendo che anche l’amore può essere cattivo, quando è incapace di comprendere l’aiuto ricevuto ed essere riconoscente. A tal proposito ricordo una favola che la nonna, quella si che era buona, raccontava a noi nipoti, quando nelle serate d’inverno eravamo tutti raccolti attorno a un braciere, godendo il caldo e il racconto. Era una favola di Hans Christian Andersen sul bambino cattivo. Una sera di tregenda, pioveva a dirotto, un vecchio poeta sentì bussare alla porta. Aprì e vide un bambino, biondo, bello come un angelo, con due occhi lucenti come due stelle e con un arco un po’ sbilenco sulla spalla le cui frecce per l’intensa pioggia erano diventate tutte storte. Era tutto bagnato, tremante, pallido e al limite dell’assideramento. Il vecchio poeta, intenerito, lo fece entrare, lo asciugò, lo riscaldò, gli fece bere del vino e mangiare una mela e seppe che il bambino si chiamava Amore e che sapeva tirare bene con l’arco. Il bambino, che si era ripreso, incominciò a manovrare l’arco, a raddrizzare le frecce e, dopo un poco esclamò “adesso si è asciugato e le frecce sono tutte dritte e ora lo posso anche provare”, e con destrezza mise una freccia nell’arco, mirò e colpì il vecchio al cuore. “Hai visto che il mio arco non si è rovinato” Ridendo e cantando uscì senza preoccuparsi del vecchio, che, ferito, giaceva gemente al suolo. La morale della favola è che anche l’amore può manifestare comportamenti cattivi e, in accordo con la filosofia di Schelling, il Bene può anche generare il Male.

Per quanto riguarda il fenomeno “abuso o trascuratezza” riferito alla popolazione anziana, di solito la vittima è sempre il vecchio, tant’è che l’abuso nei suoi confronti è definito come un’azione o omissione compiuta nei confronti di una persona anziana che possa attentare alla sua vita, alla sua libertà di movimento, all’integrità fisica o psicologica, oppure al danneggiamento della sua sicurezza finanziaria. Il complesso delle azioni lesive sono poste in essere a danno di un anziano, soprattutto se fragile o incapace, con piena coscienza delle loro implicazioni dannose per la vittima, delle sofferenze e dei rischi che per essa comportano. Nel libro X della Repubblica Platone scrive che gli uomini ingiusti, da vecchi, sono maltrattati e vengono flagellati e saranno poi torturati e bruciati”. L’abuso e la trascuratezza, comunque venga perpetrato si esprime sempre con una violenza che per il World report on violence and health (Geneve 2002), è sinonimo di prepotenza, angheria, brutalità, prevaricazione ed esprime l’uso intenzionale di forza fisica o di potere, minaccioso o reale, contro una persona o un gruppo di persone o una comunità, che risulta o ha un’alta probabilità di risultare in lesione fisica, morte, danno psicologico, e deprivazione. La società odierna, in una consapevole congiura del silenzio, preferisce, per un ipocrisia buonistica, parlare del vecchio saggio o esprimersi più frequentemente in senso negativo, in termini di fragilità, di malattia, di solitudine, di peso sociale e non vede mai o non vuole vedere le possibili opportunità positive che dagli anziani potrebbero pervenire.

La violenza può essere fisica o verbale, poiché si può attuare con atti di aggressione fisica rivolti a provocare lesioni più o meno gravi o in modo verbale, o gestuale, volta a offendere, umiliare tratti caratteristici della personalità, come il sentimento di libertà o il sentimento di autostima e di dignità.

Scarsamente conosciuta è invece la situazione in cui un genitore che ha sempre vittimizzato i familiari continua a farlo anche da vecchio. In tali circostanze è verosimile una persistenza del padre padrone o della madre possessiva. La cattiveria, infatti, non è una questione di genere, in quanto è effettuata sia dal vecchio sia dalla vecchia. La letteratura geriatrica e psicologica si è poco soffermata su tale aspetto, preferendo ricerche più facili, più reperibili e più numerose sugli anziani vittime di abusi. Virginio Oddone è stato il primo e forse l’unico ricercatore italiano che ha sottolineato la figura del “vecchio cattivo” e ne ha dato una definizione, nel suo capitolo del mio volume “Abusi contro gli anziani” edito da Rubbettino nel 2006. Scrive Oddone l’anziano cattivo è quel membro di una struttura familiare nucleare od allargata, che sia la causa di conflitti famigliari e/o violenza domestica in conseguenza di suoi comportamenti anormali e/o francamente ingiusti e/o aggressivi, che non dipendono da alterazioni del carattere e del comportamento sopravvenute in vecchiaia in conseguenza di forme morbose in grado di indurle autonomamente (ad es. demenza, neoplasia cerebrale, eventi ischemici od emorragici cerebrali, postumi di traumi cranici encefalici, ecc.), ma che sono in continuità con comportamenti di segno analogo e/o con manifestazioni di tratti del carattere della personalità, disturbi, vere e proprie malattie di mente, già presenti durante la maturità e sin dai primi tempi della vita familiare”. La definizione proposta da Oddone mi sembra esaustiva, anche perché differenzia nettamente la cattiveria del vecchio da manifestazioni comportamentali secondarie a malattie cerebro vascolari, e la considera, invece, come il continuum della personalità antecedente.

E’ opportuno quindi differenziare da subito l’ansia, l’agitazione e l’aggressività dalla cattiveria in sé. L’aggressività è uno dei disturbi comportamentali più frequenti associati alla demenza di Alzheimer e fa parte dei BPSD (Behavioral and Psychological Symtoms of Dementia). E’ presente in circa il 25% dei casi e può essere fisica e verbale e può manifestarsi anche con atteggiamenti cattivi. L’aggressività fisica, che può essere rivolta anche a se stesso, si caratterizza con sferrare calci o colpi, afferrare le persone, spingerle, morderle, graffiarle o sputarle. La forma verbale si manifesta con grida, imprecazioni, offese, parolacce, bestemmie. Le ricerche etologiche di Konrad Lorenz hanno dimostrato che l’aggressività aumenta in funzione della riduzione dello spazio vitale e, per quanto riguarda gli anziani, è una situazione di frequente riscontro nelle RSA per la promiscuità, l’assembramento di più persone in spazi ristretti e l’elevata prevalenza di soggetti dementi. Edward Hall nel 1966 spiegò il comportamento aggressivo dell’anziano con la teoria prossemica, che induce un maggiore o minore aggressività in funzione della distanza tra i soggetti. Hall propose quattro fasce distinte: la distanza intima tra quindici e quarantasei centimetri, troppo ridotta da non consentire un movimento autonomo, facilitando così l’aggressività; la distanza personale, tra 45 e 125 centimetri, che pur impedendo il contato diretto e consentendo una modesta libertà di movimento, può sviluppare comportamenti aggressivi se un soggetto invade lo spazio; la distanza sociale tra 125 e 210 centimetri che esclude ogni contatto fisico e consente una privacy o un isolamento; infine la distanza pubblica oltre i tre metri, nel cui spazio il soggetto può circolare senza contatti e dove è smorzata l’aggressività. Una ricerca importante sarebbe quella di valutare se quel 25% di dementi aggressivi con manifestazioni di cattiveria erano aggressivi e cattivi anche prima del disturbo dementigeno. In altri termini, l’aggressività e la malignità sono sintomi della demenza o, per contro, sono comportamenti preesistenti slatentizzati dall’involuzione neurodegenerativa cerebrale? La questione è aperta e merita certamente maggiore attenzione.

Della cattiveria e malignità del vecchio si sono interessati più i romanzieri, i poeti e gli artisti in genere che i medici. La cattiveria è stata sempre collegata con la bruttezza. Goia ha dipinto vecchi mostri orripilanti. Nella Grecia antica i vecchi sileni, erano ebri, malvagi, brutti e ripugnati. Omero ci presenta Tersite, gobbo, malevolo, ciarliero bastonato da Odisseo: L’Hybris, topos della letteratura greca, indica una colpa del passato, di cui, in varia misura, dobbiamo pagare il fio. Shakespeare disegna Enrico III gobbo, e cattivo, arrogante e malevolo con tutti. Dickens descrive figure indelebili di cattivi, usurai, anziani sadici, prepotenti come Scrooge, Squeers o i fratelli Murdstone. Dostoevskij dà l’immagine esaustiva del padre padrone nei Kamarazov. Irene Némirovsky dipinge figure di madri possessive, sadiche e crudeli e perfino nei libri gialli di Agatha Christie troviamo personaggi come la Domatrice, madre accentratrice e crudele, Gavino Ledda e Lino Daniele, l’uno sardo e l’altro calabrese, con i loro romanzi “Padre padrone” e “Il figlio ribelle” hanno denunciato le privazioni, le angherie, le cattiverie subite dalla prepotenza, supponenza, ignoranza e malvagità dei loro rispettivi genitori.

La cattiveria, può essere sinonimo di perfidia, di malignità, di malizia ed esprime l’attitudine a voler offendere, a far male, provando piacere. Le persone sono cattive quando godono consapevolmente a fare del male, non curandosi delle conseguenze nocive che la loro malvagità arreca alla vittima Non si diventa comunque cattivi dall’oggi al domani: Se un vecchio è cattivo, sadico, carnefice vuol dire che lo era stato anche in giovane età e che l’esperienza del suo vissuto, la cultura, i suoi rapporti sociali non sono stati in grado di modificare o subliminare il suo comportamento sadico e malvagio. Nasce spontanea allora la domanda se la malvagità e la cattiveria siano una caratteristica genetica ed ereditaria o per contro dipendano dall’ambiente in cui una persona vive. La filosofia positivistica di Cesare Lombroso, già nell’ottocento, affermava con la teoria dell’atavismo che cattivi, prostitute, briganti, assassini si nasce. Recentemente Mina Cikara e Susa Fiske, ricercatrici presso l’Università di Princeton (USA), partendo dalle osservazioni lombrosiane, hanno dimostrato che l’invidia si associa a un vero ed elevato piacere. Per le due ricercatrici “una mancanza di empatia non è sempre patologica. E’ una risposta umana, e non tutti la sperimentano, ma in molti casi succede”. Le loro ricerche hanno dimostrato che a scatenare l’invidia sono la competizione e il fatto che qualcuno abbia una carriera più elevata della propria, considerata dal soggetto come una voluta ingiustizia nei suoi confronti. Nel suo trattato “Principles of psychology” pubblicato nel 1890, William James scrisse che “l’uomo è la più crudele e feroce delle belve”. Eugen Bleuler (1857-1939), enunciò un concetto, secondo il quale “la personalità si sviluppa sulla base delle disposizioni evolutive e reattive ereditarie, in stretta connessione tanto con lo sviluppo somatico che con l’esperienza del mondo circostante”. In altri termini per Bleuler molti aspetti del comportamento umano normale e patologico sono il risultato, oltre che delle disposizioni ereditarie, anche dell’influenza del mondo circostante e dell’apprendimento. D’altronde, Platone nel Timeo aveva affermato che il male si basa su una tendenza innata che esiste nella parte corporea della sua mescolanza, cioè una proprietà congenita del suo essere. Per Simon Baron-Cohen in “Zero Degrees of Empathy. A New Theory of Human Cruelty, la cattiveria è innata ed è una vera malattia che nasce dalla mancanza di empatia del soggetto, a causa di una specifica conformazione dei circuiti cerebrali. Laura Boella, professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano, pur considerando positivamente la teoria empatica di Baron- Cohen, ritenendola una buona riflessione sul lato oscuro dell’empatia, ci mette in guardia nel non stressare il concetto, per evitare di considerare tutti psicopatici i cattivi. La Boella ritiene molto importanti i fattori ambientali e afferma “ci solo molto situazioni sia patologiche come la schizofrenia o comunque borderline in cui stress, depressione, alcolismo, deficit dello sviluppo psichico nell’età infantile possono compromettere notevolmente la capacità empatica”. Secondo alcuni ricercatori la cattiveria e la violenza dipendono da come noi vediamo gli altri: se consideriamo le persone a noi inferiori allora la cattiveria e la perfidia sono manifestazioni ritenute legittime da coloro che le praticano, al punto da attuare una disumanizzazione della vittima (vedi la shoà, i lager, i gulag, lo schiavismo, il razzismo, la pulizia etnica, il genocidio, l’omofobia, ad esempio). Marta Ayres e Anne Woodtli, in un loro articolo apparso nel dicembre del 2001 sul Journal of Advanced Nursing avevano descritto gli abusi fisici ed emotivi inflitti da anziani al caregiver, di solito una familiare donna, sposa, figlia, nuora senza tuttavia darne giustificazioni esaustive. E’ lecito allora porsi la domanda: perché un uomo o una donna invecchiando manifesta comportamenti aggressivi, malevoli al limite del sadismo nei confronti dei familiari che continuano ad assisterlo, ignorando qualsiasi sentimento di riconoscenza e gratitudine? Il loro è un comportamento che appare solo in tarda età o, per contro, risulta una mera continuazione di un atteggiamento preesistente, legato ad un carattere malvagio? Scarse sono le informazioni circa una cattiveria nell’invecchiamento, mentre abbiamo più notizie sulla cattiveria invecchiata, anche se mancano lavori e ricerche sulla sua prevalenza e incidenza

Due sono le principali correnti di pensiero che cercano di spiegare il fenomeno.

La prima deriva da un sentimento di vendetta, di rivalsa sugli altri da parte di un soggetto che nell’arco dell’attività lavorativa ed esistenziale ha subìto sempre delle sconfitte: scelte professionali sbagliate, scarso avanzamento nella carriera attribuito ad una volontà malevola dei propri superiori, ridotta rete sociale, sentimento di persecuzione, approcci amorosi deludenti, matrimonio sbagliato, divorzio. Situazione queste che innescano nell’animo del soggetto da una parte una cocente e amara delusione e spesso un ricorso all’alcol come fuga dalla realtà e dall’altra un odio nei confronti di tutto e di tutti, familiari compresi. Il soggetto, ritenendosi perseguitato, sfruttato, incompreso nelle sue capacità lavorative e umane, si chiude sempre più in se stesso e come rivalsa si sviluppa in lui una forte voglia di vendetta, che assapora piacevolmente. Vuole punire non solo chi ritiene nemici, ma ogni essere vivente, cani e gatti compresi. Probabilmente “il cattivo” anche nel guizzo del piacere erotico del ius primae noctis attua una voglia di possesso, dove cattiveria, odio e sopraffazione dell’altro si embricano in un sentimento di perfidia, di stupro, di voler punire e umiliare l’innocente. La cattiveria gli dà un senso di onnipotenza e di un potere prima sconosciuto. Diventa sempre più prepotente, autoritario, tiranno con la voglia sadica di vittimizzare il mondo. Un po’ come il capitano Achab, ossessionato da una antica e cieca vendetta verso chi reputa il nemico da sopprimere, gode nel voler punire la ciurma- parenti visti come dei Moby Dick simbolo demoniaco del male. Ma il suo potere di carnefice miseramente non va oltre le mura domestiche e ciò gli procura la contezza del proprio fallimento e un’ulteriore prova dei suoi insuccessi e senza saperlo attua nei suoi confronti un’autoaggressione, che lo immiserisce e gli fa ignorare la propria fragilità e perdere quel poco di saggezza legato all’avanzar degli anni. Diventa sempre più odioso e cattivo con i caregivers, nei cui confronti esplica un potere sempre più dispotico: : adesso ve la faccio pagare io! Se ricco lesina il denaro, offende con epiteti umilianti chi gli sta attorno, diventa manesco. D’altronde il potere vuole la guerra e l’odio per l’altro, considerato sempre come “il nemico”. La sua arroganza e la contezza nell’osservare il terrore nei congiunti lo soddisfa e lo fa godere e lo porta a inventare procedure sempre più sofisticate per vittimizzare i parenti. E più questi sono umanamente dolenti, più il suo narcisismo malevolo si esalta.

La seconda teoria della cattiveria del vecchio è spiegata con una disfunzione genitoriale. J. Bowlby con la teoria dell’attaccamento ha fornito un quadro dettagliato dello sviluppo dell’infante in un sistema dove il legame e l’attaccamento ai genitori risulta inadatto e insufficiente a dare sicurezza, amore e sviluppo organicamente ordinato. Se le figure di riferimento sono inadatte, poco protettive lo sviluppo del bambino sarà inadeguato e si innescheranno stili di vita di evitamento propri dei disturbi della personalità. Rinsley parla di depressione abbandonica per dimostrare l’inadeguatezza del comportamento materno, ogni qual volta si presenta al bambino la prospettiva della separazione e quella del riavvicinamento, come prospettata da Margareth Mahler in una delle sue fasi. Bowlby ha descritto diversi tipi di attaccamento (sicuro-evitante, sicuro-ambivalente, disorganizzato-disorientato, insicuro-evitante) che in varia misura possono influenzare lo sviluppo di personalità del bambino e influire successivamente in modo stabile nelle diverse età della vita. Secondo l’Autore l’attaccamento disorganizzato, dove la figura di riferimento viene percepita come “ostile” e “pericolosa”, dalla quale bisogna difendersi, genera uno stile di vita cognitivo ostile con disturbo di personalità antisociale, con il gusto di manipolare gli altri senza sentire rimorso. In altri termini, il bambino percepisce la mancanza del caregiver-mamma, la sente lontana, estranea, ostile e nemica. Il bambino, in questo caso, è l’elemento passivo dove manca il legame che “attacca” l’infante al genitore. Si sviluppa un disturbo di personalità fragile, al limite del disturbo paranoico, dove emergerà per tutto l’arco della vita il desiderio di recuperare un legame negato e l’estremo bisogno dell’altro per poter rinascere, per ritrovare un amore sognato e mai avuto, ma per l’incapacità di essere empaticamente sociale il soggetto pensa, ritiene che l’altro si neghi e che lo rifiuti. La mancanza di attaccamento genitoriale dell’infanzia diventa in tarda età incapacità a relazionarsi con gli altri, ad avere rapporti sociali reali, a vivere un’esistenza serena, dove la contezza del tempo di vita limitato non si traduce in umiltà, in richiesta d’aiuto e di affetto. Si sviluppa allora la cattiveria, la malvagità, il desiderio di annientare “l’altro” visto come un nemico, che nella vecchiaia diventa ancora più evidente. Si assiste a una precessione di attori. Il bambino ha considerato, per un attaccamento insicuro-evitante, inaccessibile la figura di riferimento (mamma-caregiver) e passivamente l’ha subita. Ora è diventato vecchio, è più o meno disabile e necessita di assistenza, che gli viene fornita dai familiari, da lui pretesa con angheria senza riconoscenza. Ora è lui l’elemento attivo. Si sente forte e narcisisticamente si ritiene il signore del castello e “assedia” i familiari, vittimizzandoli in ogni momento e in ogni modo, godendo della sofferenza che genera in loro. E tanto più gli altri soffrono tanto più egli gode. In fondo, però, il vecchio cattivo è un perdente perché è solo con se stesso e con la sua malvagità, che lo avvita in una spirale ossessiva. Non ha il piacere di relazionarsi con gli altri, da lui considerati servi da schiavizzare. Ha alzato il ponte levatoio e, nel suo piccolo castello pensa di dominare, mentre in fondo è lui che viene dominato dalla propria cattiveria, perché poco ha fatto nell’arco della sua vita a trasformare un attaccamento insicuro in uno sicuro, che certamente alla fine lo avrebbe reso meno velenoso, meno insoddisfatto e più propenso a capire gli altri e ad apprezzare il compito assistenziale dei familiari. In conclusione, la cattiveria del vecchio determina sempre un forte burn out nel caregiver, vessato, umiliato e stressato dalla pesantezza del carico assistenziale, costretto a continuarlo per necessità e perché continua ad essere solo in una società che dà poca attenzione al grave problema assistenziale dell’anziano e preferisce delegare tale compito alle cosiddette “badanti”. La dedizione del caregiver, la sua umiltà, l’accettazione passiva dell’insulto malvagio, sono tutti sentimenti incapaci a fare mutare nell’assistito l’atteggiamento malevolo o a innescare in lui un ripensamento, un mutamento comportamentale fino all’annullamento della cattiveria.

 

Carmine Macchione
Direttore scientifico ACSA Magazine

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